Rassegna stampa in collaborazione con Mimesi s.r.l.
di Leonardo Archimi e Sara Sileoni
A quasi quattro anni dall’entrata in vigore del testo unico sulle società partecipate ancora non è stato adottato il decreto previsto dall’articolo 11, comma 6, del Dlgs 175/2016 che dovrebbe disciplinare i tetti ai compensi dei componenti degli organi amministrativi delle società in controllo pubblico. Nelle more, come prevede il successivo comma 7 dell’articolo 11, «restano in vigore le disposizioni di cui all’articolo 4, comma 4, secondo periodo, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95 ». L’applicazione di questo regime transitorio ha creato e crea dubbi interpretativi. Da ultimo è tornata ad occuparsene la Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Liguria, con la deliberazione n. 29/2020 (si veda Il Quotiiano degli enti locali e della Pa del 9 aprile). Il Collegio, ricostruendo il quadro normativo previgente, ha affermato che sull’impianto è intervenuto il Tusp che ha abrogato alcune disposizioni dell’articolo. 4 del Dl 95/2012, ha eliminato il riferimento alla tipologia di società (strumentali o a totale partecipazione pubblica) e ha ribadito l’operatività del limite della spesa storica dell’anno 2013. Da ciò la Corte dei conti ha dedotto che, nelle more dell’adozione del decreto, il regime transitorio sia applicabile a tutte le società a controllo pubblico anche se non siano strumentali o non siano a totale partecipazione pubblica.
Rispetto al regime previgente una importante novità è che il limite non opera più per le società a totale partecipazione pubblica che non siano a controllo pubblico, anche se la distinzione, irragionevolmente, non sussiste secondo il Mef (a partire dall’orientamento del 15 febbraio 2018) e le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti.
Leggendo la deliberazione della Corte dei Conti sorge, inoltre, un ben più rilevante interrogativo. Il collegio ha, infatti, rammentato che è ammissibile una deroga al limite dei compensi «in caso di assenza di spesa per l’annualità di riferimento, per mancanza del costo-parametro che dovrebbe fungere da limite». Il riferimento è all’assenza di spesa per gli emolumenti dell’organo amministrativo «ivi compresa la remunerazione di quelli investiti di particolari cariche»; dunque, teoricamente, nel caso in cui una società, innovando rispetto al sistema gestionale precedentemente scelto, magari in considerazione della evoluzione e della complessità delle attività societarie rispetto all’ormai lontano 2013, decida di dotarsi di un amministratore delegato, la sua professionalità e il suo particolare impegno nella gestione societaria non potrebbero essere retribuiti.
La conclusione appare illogica e irragionevole; lo è ancor più se si considera che, al contrario, la società è ben libera di dotarsi di un direttore generale e di corrispondere un compenso congruo alla sua funzione, senza alcun limite di spesa che non sia quello generale, della adeguatezza. Perché una società privata potrebbe scegliere di organizzarsi nella maniera che ritiene più opportuna e invece la società pubblica non avrebbe questa facoltà ? Quale sarebbe la ragione giustificatrice della compressione della libertà di scelta e di azione in capo alle sole società pubbliche, le quali, comunque, sono soggette al regime civilistico delle società, come rammenta l’articolo 1 del testo unico? Tanto più che il ruolo dell’amministratore delegato investe responsabilità ancora maggiori rispetto al direttore generale, che, comunque, risponde all’organo amministrativo.
Non a caso, la bozza di regolamento prevista dal comma 6 dell’articolo 11 del Tusp distingue il trattamento economico dei meri componenti del consiglio di amministrazione da quello degli amministratori delegati, i quali, in ragione del ruolo di responsabilità che svolgono, fuoriescono dall’orbita degli organi direttivi collegiali potendo e dovendo godere di retribuzioni più elevate. Alla luce di ciò è ragionevole chiedersi se sia legittima, anche costituzionalmente, la limitazione della sfera decisionale della società, e del suo organo amministrativo, atteso che le deleghe vengono da questo conferite, il quale, d’altro lato, ha il dovere di apprestare l’assetto organizzativo più adeguato a sviluppare le potenzialità aziendali. Probabilmente il dubbio se lo è posto anche la Corte dei conti che, nella deliberazione n. 29/2020, rileva che «non può che stigmatizzare il lungo protrarsi del ritardo nell’adozione del decreto ministeriale che, ancorando la determinazione dei compensi all’effettiva complessità della gestione societaria, favorirebbe anche la selezione delle migliori professionalità, superando l’ormai anacronistico riferimento alla spesa storica del 2013».
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